La lettura che vi propongo oggi è tratta da Il Post e si deve a Francesco Cataluccio, che , oltre ad essere un bravissimo scrittore, si occupa anche dei programmi culturali dei Frigoriferi Milanesi e quindi, in qualche modo, posso considerarlo un mio collega. Scrive davvero bene. Seguitelo.
Il titolo mi ha attirato moltissimo anche perché, secondo mia moglie, da un po’ di anni io pure sono ipocondriaco.
IL BALLO DEGLI IPOCONDRIACI
Durante la Grande Epidemia siamo diventati tutti un po’ ipocondriaci. I molti che lo erano già hanno sperimentato la forsennata danza delle malattie. La mia farmacista sostiene che il consumo di medicinali è cresciuto in modo esponenziale: soprattutto farmaci inutili e psicofarmaci. In effetti la cosa peggiore che potesse capitare, durante l’epoca del Coronavirus, era di sentirsi male per davvero, aver bisogno di un medico che venisse a casa, infognarsi per ore di attesa in un affollato Pronto Soccorso, venir ricoverati in un Ospedale dove i medici e gli infermieri si affannavano a tentare di arginare e curare ben altre emergenze.
È stato allora che, complice la disinformazione dilagante e le contraddittorie indicazioni, si è scatenata la Fantasia delle malattie. Tutti ci siamo sentiti malati. Quella “coscienza ipertrofica” della quale parla Fëdor Michajlovič Dostoevskij, proprio all’inizio delle Memorie dal sottuosuolo (1864): “Io sono una persona malata […] Credo di avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non capisco un’acca della mia malattia, e non so che cosa precisamente ci sia di malato in me…”.
Sentirsi malati attenua le proprie frustrazioni, attira attenzioni e affetto e quindi può essere anche una sorta di conforto. Conosco bene la febbrile ebrezza di chi si sente tutte le malattie addosso. Non, fortunatamente, per attitudine personale, ma per aver avuto in famiglia un parente che addirittura, fu detto, morì di ipocondria.
Il terzo fratello di mio padre si chiamava Emanuele. Fragile di costituzione e di carattere fu spedito in collegio a Catania dai Salesiani. Si trovò bene, scoprì in sé una forte vocazione e si fece prete. Mio nonno, ateo impenitente (ma il campanile della chiesa accanto a casa sua fu rifatto, poco prima che morisse, a spese sue) e, soprattutto, indispettito per “l’investimento non andato a buon fine”, lo diseredò e non volle mai più vederlo.
I fratelli comunisti (il mio babbo e lo zio Matteo) gli vollero sempre bene e ridivisero a suo favore la loro parte di eredità (le quattro sorelle furono meno sensibili, ma anche una di loro era stata diseredata, perché fuggita a Detroit con un fidanzato malvisto). Di lui comunque si parlava poco. “È sempre malato”, tagliava corto sospirando il babbo, quando qualcuno gli chiedeva di Emanuele.
Si era laureato in lettere classiche e le insegnava dai Salesiani a Palermo. Si sentiva addosso tutte le malattie del mondo. Tanto che si era comprato un numero spropositato di libri ed enciclopedie mediche, anche in lingue straniere. La cosa non aveva migliorato il suo stato. Anzi: spesso non riusciva a comunicare il suo malessere, perché non sapeva nemmeno il termine in italiano.
Un giorno ce lo vedemmo comparire sulla soglia di casa a Firenze. Altissimo e magrissimo, come una statua di Giacometti. La tonaca nera conferiva al suo volto e alle mani un pallore intensamente ceruleo. Gli occhi erano molto belli: verdi scuri e piegati all’ingiù. La mamma lo invitò ad entrare e attendere in salotto il ritorno di papà.
Prese a camminare su e giù silenziosamente come una bestia in gabbia (proprio come faceva ogni sera, per un’ora, suo fratello, ascoltando la musica e consumando implacabilmente in diagonale il prezioso tappeto dono di nozze). La mamma e noi bambini lo osservavamo preoccupati.
Alla domanda se avesse fame rispose con un plateale gesto della mano e la richiesta di un piatto, vuoto. Avutolo prontamente, lo posò al centro del tavolo e, da alcune tasche interne alla tunica, iniziò a cavar fuori ogni ben di Dio: uova sode, salsicce con i semi di finocchio, un pezzo di cacio cavallo, alcune carote, due focacce con patate e cipolle, una pagnotta al sesamo, una bottiglia di vino rosso, quattro arance e tre mandarini, dei biscotti di mandarle, limoni, frutta candita, caramelle e cioccolatini. Sembrava il divoratore di naftalina Eta Beta, con il suo gonnellone ascellare che conteneva tutti gli oggetti di un’intera casa!
Trangugiò rapidamente tutto e si mise a fare un rumoroso pisolino, dopo aver borbottato una breve preghiera e averci impartito una solenne benedizione. A nostro padre raccontò poi che era di passaggio sulla strada per la Cecoslovacchia: andava alle terme di Karlovy Vary (la mitica Karlsbad), per trascorre un periodo di cura delle acque. Non volle fermarsi a cena da noi perché, disse, doveva stare a dieta.
Le malattie che gli cadevano addosso erano talmente tante e gravi che quando, per una pioggerellina primaverile accompagnata dal vento, si buscò un malanno, si sentì sollevato che si trattasse, come disse per telefono al babbo, «solo di un banale raffreddorino». Così lo trascurò e dopo alcuni giorni era morto.