La lettura di oggi : La neve nei film

Un articolo de “Il Post” che a me, appassionato di cinema, è piaciuto molto. Spero possa interessare anche a voi.

A Los Angeles, dove vengono girati tuttora molti film di Hollywood, la neve non cade dal gennaio del 1962. Ma molti film, soprattutto natalizi, prevedono che ci sia la neve: e girare nei posti dove la neve c’è davvero non è sempre possibile, per problemi economici e di imprevedibilità del clima. «Creare banchi di neve, ghiaccioli che scendano dalle grondaie e fiocchi di neve è da sempre una sfida per i registi», scrive l’Economist raccontando, in breve, la storia della neve finta al cinema, nata da una necessità.

Quando si cominciarono a girare film a Hollywood, la neve veniva creata con materiali comuni: grandi palle di cotone venivano gonfiate per creare dei cumuli, ma con gravi rischi per la sicurezza; le pasticche per digerire venivano polverizzate e soffiate da grandi ventilatori per riprodurre le tempeste di neve, finché gli attori inalandole non cominciarono ad accusare qualche disturbo. Allora si pensò di dipingere di bianco i cornflakes, che erano convincenti sullo schermo ma che avevano alcuni fastidiosi inconvenienti: lo scricchiolio che facevano quando venivano calpestati rendevano i dialoghi inutilizzabili.

Nel Mago di Oz del 1939, Dorothy e i suoi compagni vengono sorpresi dalla neve in un campo di papaveri: quella neve era realizzata con fibre di amianto, altamente cancerogene. Commercializzato con nomi come “Pure White”, l’amianto è stato utilizzato nei film fino a dopo la Seconda guerra mondiale e in quello stesso periodo fu commercializzato come neve artificiale anche per decorare gli alberi di Natale di casa. Nel film Il medico di campagna del 1936 vennero utilizzati circa 455 chili di fibre di amianto per riprodurre le terre del Québec.

Frank Capra, uno dei registi più importanti della cosiddetta epoca d’oro di Hollywood, fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, si oppose ai metodi utilizzati fino ad allora: non perché fosse preoccupato per la salute degli attori e di chi lavorava con lui, ma perché erano rumorosi e lui voleva girare in presa diretta i dialoghi di La vita è meravigliosa. Così Russell Shearman, tecnico e supervisore agli effetti speciali, si inventò un innovativo e rivoluzionario tipo di neve artificiale: mescolò la foamite, materiale utilizzato nella composizione di alcune polveri per estintori, con acqua, zucchero e sapone, creando una soluzione che venne pompata attraverso le macchine per il vento. Il risultato fu molto realistico e, soprattutto, silenzioso (quell’anno Shearman vinse l’Oscar per i risultati ottenuti).

Il dottor Živago di David Lean venne girato tra la Spagna e la Finlandia, e non in Russia dove il libro di Boris Pasternak era stato censurato. Per riprodurre ghiaccio e neve venne utilizzata della cera d’api congelata e mescolata con polvere di marmo. La scena iniziale di The Gold Rush del 1925 di Charlie Chaplin mostra la Sierra Nevada, in California (che rappresentava il Chilkoot Pass in Alaska), ma le condizioni meteorologiche costrinsero Chaplin a ritirarsi in uno studio, dove il paesaggio innevato fu riprodotto con farina e sale. Anni dopo Stanley Kubrick, spiega l’Economist, «non prese nemmeno in considerazione l’idea di girare con la neve vera, che si sarebbe sicuramente sciolta prima che la prima scena fosse completata». Per Shining, del 1980, lavorò dunque in uno studio britannico usando sale e polistirolo.

Tra le soluzioni più comuni e recenti c’è la carta riciclata conosciuta come Snowcel: si vede in film come The day after tomorrow (del 2004) e nel Gladiatore (del 2000). L’inconveniente di questo materiale è la sua tendenza a non rimanere a terra e a fluttuare verso l’alto. Oggi sempre più spesso le sostanze alternative alla neve vengono sostituite con immagini grafiche digitali, utilizzate anche nei film con attori veri. La neve, proprio come il fuoco e il pelo, è particolarmente difficile da riprodurre al computer, ma nel 2013 è stata sviluppata una nuova tecnica per il film Frozen, chiamata “material point method”, che registra e ricrea le proprietà dei fiocchi di neve.

 

La lettura di oggi: Consumi, domotica ed elettrodomestici smart

Un articolo dal quotidiano laRepubblica che dedico  prima di tutto a mia moglie e poi a tutti coloro che  sono diffidenti su domotica e tecnologia…
Alexa, spegni la luce.

Consumi, domotica ed elettrodomestici smart permettono di risparmiare 200 euro in bolletta
di Marco Cimminella
Il governo ha varato una serie di misure economiche per fronteggiare la corsa al rialzo dei prezzi energetici. Gli aiuti per alleggerire le bollette hanno evitato un salasso, neutralizzando aumenti nell’ordine del 45% per il gas e del 15% per la componente elettrica. Tuttavia, nonostante quest’azione di contenimento, l’impatto del caro energia è evidente sui costi sostenuti dagli utenti. I dati dell’Arera, l’Autorità di regolazione per Energia Reti e Ambiente, mostrano infatti che la spesa per la famiglia tipo tra il primo ottobre 2021 e il 30 settembre 2022 sarà di circa 1071 euro per la bolletta elettrica, vale a dire il 91% in più rispetto ai 12 mesi equivalenti dell’anno precedente. Discorso simile per il gas: la bolletta della famiglia tipo sarà di circa 1.696 euro, riportando quindi un incremento del 70,7% rispetto al periodo ottobre 2020 – settembre 2021. Da qui l’importanza di un impiego più razionale e consapevole delle risorse, che può aiutare ad affrontare la tempesta dei prezzi e a contenere gli aumenti. Una casa intelligente, dotata di dispositivi di domotica, elettrodomestici più efficienti, prese elettriche e lampadine Led gestibili da remoto, consente di risparmiare circa 200 euro l’anno sulle bollette. A dirlo è un’indagine dell’Osservatorio SOStariffe.it e Segugio.it (che Repubblica è in grado di anticipare), che ha calcolato quando può mettere da parte una famiglia che vive in un appartamento smart.

La tecnologia permette di eliminare molti sprechi a cui spesso non si fa caso: un uso errato del riscaldamento o del condizionatore, elettrodomestici in stand-by che pesano l’8% sui consumi totali di energia elettrica in un anno, il caricabatterie del telefono sempre inserito sono solo alcuni esempi. A questi si accompagna la mancata programmazione dell’accensione di lavatrice, asciugatrice o lavastoviglie nelle fasce orarie in cui l’energia costa di meno, a condizione di affidarsi ad una tariffa multi-oraria per l’energia.

I risparmi

Lo studio ha preso in considerazione il caso di una famiglia tipo con consumo annuo di 2.700 kWh di energia elettrica e 1.400 Smc di gas naturale, che attiva le tariffe luce e gas più convenienti attualmente disponibili sul Mercato Libero, in modo da minimizzare l’importo delle bollette. I dispositivi della smart home consentono di avere il pieno controllo da remoto degli elettrodomestici, garantendo una gestione ottimale dell’uso delle’energia e un taglio del 9% della quota delle bollette legate ai consumi effettivi. Il risparmio sarebbe quindi di 200 euro nell’ipotesi di passaggio alle migliori tariffe del Mercato Libero, sottolineano gli autori della ricerca, facendo notare che restando nel Mercato Tutelato, il risparmio sarebbe maggiore.

Più nel dettaglio, un termostato per la caldaia a gas connesso a internet e gestito da remoto consente di risparmiare 76 euro ogni anno: lo strumento, infatti, grazie alla programmazione degli orari di funzionamento, evita 100 ore di utilizzo non necessario della caldaia, tagliando i consumi del 5%. Un altro valido aiuto arriva dalle prese elettriche smart che possono essere controllate a distanza: quando gli elettrodomestici non vengono usati, le prese si scollegano dalla rete di alimentazione, evitando consumi inutili legati allo stand-by. In questo modo si possono risparmiare 61 euro ogni anno.

Ancora, è possibile risparmire anche con un uso più intelligente del sistema di illuminazione. Una lampadina smart, che funziona con tecnologia Led a basso consumo, può essere personalizzata e controllata da remoto con un’app dedicata oppure con assistenti vocali ad hoc. Programmando gli orari di accensione, si evitano inutili sprechi: con un set di 10 lampadine da 10 W, il risparmio è di 9 euro l’anno. Lo stesso principio vale per i condizionatori, che in questo periodo pesano in bolletta soprattutto per chi lavora in smart working: le temperature infatti raggiungono i valori massimi durante le ore centrali della giornata ed è proprio in questi momenti che si fa più uso della climatizzazione domestica. Un condizionatore smart può essere azionato e disattivato attraverso un’applicazione: considerando che il consumo medio è di 0,8 KWh all’ora, evitando 100 ore di spreco si risparmiano 80 KWh, riducendo la spesa annua di 22 euro.

In generale, la possibilità di controllare da remoto gli elettrodomestici e di impostare accensione e spegnimento in funzione delle fasce orarie più economiche (come la sera e nei weekend) allegerisce la bolletta. Questo vale, ad esempio, per lavastoviglie, lavatrici e asciugatrici: un comportamento che permette una riduzione dei costi energetici annui di 32 euro.

La lettura di oggi: L’uomo sulla Luna?

Il complottismo non è un fenomeno nato con i social, come qualcuno vorrebbe far credere. C’è sempre stato. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 l’uomo sbarcò sulla luna. Ma come saprete tanti non ci hanno mai creduto. Le bufale che ancora stanno circolando sono moltisime. Vi lascio alla lettura di questo articolo del 2019 apparso su L’Avvenire a firma di Alessandro Beltrami.

“L’uomo sulla Luna non ci è mai andato. È tutto un complotto. Fu tutta una finzione ordita dagli Stati Uniti in piena guerra fredda. Le prove? Sono sotto gli occhi di tutti, proprio nelle foto che ci spacciano come vere da 50 anni”. Quella del falso primo allunaggio è forse la più classica di tutte le teorie complottiste. Ma le tesi che negano che non solo due ma ben dodici uomini hanno camminato sulla Luna tra 1969 e 1972 sono, queste sì, tutte bufale. Ecco perché.

Le foto
“Le foto sono tutte perfette, gli astronauti non avevano tempo e possibilità di farle così belle”. Non è vero. Quelle fatte circolare subito dopo l’impresa dell’Apollo 11 sono le meglio riuscite, ma sono moltissime quelle tagliate male o con problemi di messa a fuoco. Dove vederle? La Nasa ha pubblicato sul sito di condivisione immagini Flickr un archivio composto da 14.228 fotografie con il repertorio fotografico di tutte le missioni Apollo. Le foto sono ritoccate? Sì: nel senso che rispetto agli originale sono stati riequilibrati i valori cromatici, per un migliore aspetto estetico: nulla è stato alterato. “La bandiera sta sventolando, ma sulla Luna non c’è vento”. No, la bandiera dell’Apollo 11 non sta sventolando, più semplicemente non è distesa del tutto. La bandiera invece è perfettamente immobile. Nei filmati, invece, si può notare come “sventoli” quando è toccata da un astronauta, per poi non muoversi più. “Le ombre, invece di essere parallele hanno direzioni diverse, come se ci fossero due sorgenti di luce. Sono i riflettori dello studio cinematografico”. In realtà se ci fossero due fonti di luce ci dovrebbero essere due ombre. L’effetto della convergenze è un’illusione dovuta alla prospettiva, un fatto che si può verificare anche sulla Terra fotografando la nostra ombra e quella di un altro oggetto poco distante tenendo il sole basso alle spalle. Una curiosità che però contribuisce a smantellare le teorie del complotto. Nelle foto sulla Luna di Apollo 11 compare solo Buzz Aldrin: la macchina fotografica era infatti in dotazione ad Neil Armstrong. Il quale però a un certo punto la cedette per qualche minuto ad Aldrin: il quale fotografò solo paesaggi e comprese il compagno in un solo scatto ed è di spalle. Si dice che fosse stata una “vendetta” di Aldrin per non essere stato scelto come primo uomo a scendere sulla Luna. In ogni caso, se fosse stato tutto organizzato ad arte, avremmo tante foto eccellenti di Aldrin quante di Armstrong…

Dettagli
I complottisti però scendono di solito in dettagli micragnosissimi: ci sono lettere “C” su sassi e su terreno (sono in realtà pelucchi sulla pellicola depositatisi sulla pellicola in fase di stampa); antenne che compaiono e spariscono (si tratta di un’asta dipinta da una parte di bianco e da un’altra di nero, così che a seconda del punto di vista è visibile o meno contro il cielo buio)…

La Luna era un set
In alcune missioni gli astronauti compiono passeggiate riprese da telecamere fisse e si portano a distanze importanti rispetto al punto di ripresa. Se fossero state effettuate in studio, i set sarebbero dovuti essere grandi come porzioni di città, all’interno dei quali si sarebbe dovuto creare il vuoto (o riempiti d’acqua) per creare il vuoto per evitare il fenomeno della rifrazione della luce e dell’intorbidimento che si verificano in normali condizioni atmosferiche.
Ci sono altri fenomeni che non sono riproducibili in studio. La polvere sollevata dalle ruote del Lunar Rover viene proiettata via in archi perfetti e non in nuvole di polvere, come invece succederebbe sulla Terra. Gli effetti speciali a disposizioni 50 anni fa non consentivano di riprodurre questa fenomeno che invece si verifica in condizioni di vuoto.
Infine il modo in cui gli astronauti saltellano sulla superficie lunare è realizzabile soltanto in un ambiente a gravità ridotta. Se si cerca di ricreare il fenomeno usando fili o altre tecniche, come il rallentatore, il risultato è vistosamente diverso.

Il regista fu Stanley Kubrick
È una delle teorie più divertenti, perché si basano sulla verosimiglianza delle condizioni spaziali riprodotte dal grande regista in 2001 Odissea nello Spazio. Molto più divertente è la risposta che è stata data a questa affermazione: Kubrick era talmente pignolo sui singoli dettagli che non avrebbe mai disseminato la sua opera di tutti i presunti errori e incongruenze rilevati dai complottisti…

Scansioni 3D del paesaggio lunare
Nel 2009 la sonda giapponese Kaguya orbitando intorno alla Luna ha realizzato una scansione della superficie del nostro satellite. Le immagini rielaborate in tridimensionale restituiscono paesaggi perfettamente sovrapponibili con quelli fotografati dalle missioni Apollo.

Una documentazione enorme
La missione sulla Luna non il fatto di un giorno ma di anni, tra studi, progetti, ricerche, calcoli. Una mole di lavoro impressionante a cui lavorarono migliaia di persone – una massa critica che rende impossibile una falsificazione organizzata su tale scala: prima o poi nei decenni che sono seguiti alle missioni Apollo almeno un anello avrebbe ceduto, rivelando la “verità” o cadendo in contraddizione.

Rocce lunari
Le sei missioni Apollo sbarcate sulla superficie lunare hanno riportato sulla Terra 2.415 campioni, dal peso complessivo di 382 kg. La maggioranza dei campioni sono stati raccolti dall’Apollo 17 (111 kg). Tre missioni sovietiche (meno note di quelle americane, si sono svolte tutte senza equipaggio tra 1959 e 1976) ne primi anni 70 hanno riportato altri 326 grammi in totale. Laboratori di ricerca indipendenti in tutto il mondo hanno verificato la presenza di numerose peculiarità rispetto alle rocce terrestri. La comunità scientifica non ha sollevato dubbi su autenticità dei reperti e attendibilità delle analisi.

Ci sono specchi sulla Luna
Gli astronauti hanno collocato sul suolo lunare una serie di specchi in punti dalle coordinate molto precise. Dalla Terra è possibile puntarvi contro dei laser e misurare il tempo di ritorno del raggio luminoso: è così che viene misurata con precisione millimetrica la distanza tra la Terra e la Luna. Come per le rocce lunari, anche l’operazione degli specchi sarebbe potuta essere effettuata senza equipaggio, ma allora perché non dichiararlo come in tutti gli altri casi in cui questo è avvenuto?

La lettura di oggi: Chi paga il conto del voto anticipato

Un interessante punto di vista sulla sciagurata crisi di governo cui stiamo assistendo. Dal quotidiano La Stampa, a firma di Mario Deaglio

Chi paga il conto del voto anticipato
Un pizzicotto per confermare di essere svegli. Un secondo per esserne proprio sicuri. Ma i politici, soprattutto quelli del M5S, in che mondo vivono? Dovrebbe essere chiaro a chi ha esperienza diretta della politica che le elezioni in autunno comporterebbero seri rischi per il Paese in una situazione complessa come l’attuale. Non è un caso che le diciotto elezioni politiche della Repubblica si siano tutte svolte tra marzo e giugno (con l’eccezione della 17esima che si tenne a fine febbraio).
Questa “stagionalità elettorale” è dovuta all’intreccio di motivi tecnico-giuridici con solide ragioni economiche. Le elezioni si devono tenere entro due mesi dallo scioglimento delle Camere – necessari per consentire anche gli italiani all’estero di esprimere il loro voto – ma non si possono certo sciogliere le Camere senza consultazioni, tenendo anche presente il corposo voto di fiducia appena ottenuto dal governo. La campagna elettorale si svolgerebbe quindi, in gran parte, durante la stagione delle ferie: vogliamo ridurla a una successione di eventi come il Papeete, con elettori e candidati in costume da bagno?
Ammettiamo che il nuovo Parlamento, abbronzato da una campagna elettorale almeno in parte “balneare”, venga eletto intorno al primo di ottobre. Non potrà certo mettersi al lavoro il giorno dopo: prima dovrà eleggere i propri organi (presidenti, vicepresidenti, commissioni) il che non è proprio rapidissimo. Nel frattempo dovrebbe già esser stata approvata la Nadef (la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza) richiesta dall’Ue. Bruxelles probabilmente concederebbe un piccolo rinvio, ma la cosa più importante è che, a differenza di Bruxelles, l’apparato produttivo non può aspettare, essendo questo il momento dello snodo tra l’economia “delle vacanze” e l’economia “normale”, che viaggia verso il Natale e deve garantire la tenuta del Paese. In questo periodo si decideranno le nostre sorti congiunturali dell’anno prossimo. Entro il 20 ottobre, e cioè con le Camere ancora “freschissime” di nomina e probabilmente non ancora del tutto funzionanti – anche per le novità derivanti dalla riduzione del numero dei parlamentari – dovrebbe essere pronto il disegno di legge di bilancio da approvare entro il 31 dicembre, forse la legge “normale” più importante di tutte. Se quest’approvazione non arriva, scatta la tagliola dell’ “esercizio provvisorio”, ossia non potrà essere deliberata alcuna nuova spesa. Una volta approvato il nuovo bilancio, è necessario altro tempo per i “provvedimenti attuativi”, senza i quali molto spesso le leggi di spesa e di entrata non possono funzionare.
L’impressione che un economista ricava da questa complicata serie di avvenimenti è che chi ragiona di scioglimento delle Camere, anziché vivere sulla Terra, vi si trovi per caso e normalmente soggiorni su un altro pianeta nel quale l’economia non esiste. Talvolta viene additato l’esempio del Regno Unito il cui Primo ministro è stato costretto alle dimissioni (un caso sicuramente opposto a quello del premier italiano) e il suo partito sta, abbastanza ordinatamente, cercando un successore. In realtà la struttura economica non potrebbe essere più diversa, con Londra che è una delle capitali della finanza globale mentre Roma è una delle capitali mondiali del debito pubblico; Londra vive di servizi, di terziario; l’Italia vive soprattutto di manifattura. Londra ha il petrolio del Mare del Nord, l’Italia ha i serbatoi che – molto lodevolmente – sta cercando di riempire. E che farebbe il governo italiano uscito da queste elezioni anticipate se, nelle brume dell’autunno, dovesse subito imporre il razionamento dei combustibili?

La lettura di oggi: Chi ha paura della libertà?

Un bell’editoriale del direttore di Vanity Fair Simone Marchetti (22 giugno2022)
CHI HA PAURA DELLA LIBERTÀ?
Non c’è mediazione possibile, o si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt. Sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere. Sì alla cultura della vita, no alla promozione della morte. Sì all’universalità della croce, no alla violenza islamista».
Con queste parole, pronunciate durante un comizio in Andalusia, Giorgia Meloni non ha messo in luce solo le sue idee (idee e opinioni che tutti possono e devono avere). Giorgia Meloni ha messo in luce la propria violenza. Non ci sono sfumature. Né nel tono e tantomeno nelle parole. C’è solo la violenza di un pensiero che non accetta divergenze. O sei con noi, o sei contro di noi. Eppure, quante contraddizioni in queste parole.
Cos’è una famiglia naturale? La natura, quella degli animali, è spietata e violenta. È un luogo dove il più forte vince sul più debole e la catena alimentare detta le regole. Nella nostra società, nella nostra democrazia, per fortuna non succede così. E allora cos’è una famiglia naturale? La lobby Lgbt, poi. Ma cosa vuol dire? E soprattutto: cosa toglierebbe alla famiglia composta da un uomo e una donna? Niente. Al contrario, aggiungerebbe. Perché di questo si tratta: la famiglia immaginata da Meloni toglie ogni altra possibilità d’amare e di crescere i figli. Le altre famiglie, invece, aggiungono nuovi modi di amare, di crescere i figli, di volersi bene. Perché avere paura di questo amore?
L’identità sessuale. Dev’essere una? O due? E perché invece non molteplici? Ancora: perché avere paura di amare chi non ama quello che amiamo noi ma qualcos’altro? Torniamo sempre lì: togliere invece che aggiungere. L’ideologia di genere… Perché ideologia? Perché, di nuovo, togliere quando si può aggiungere? Perché impedire ad altri di essere diversi da noi?
Sulla religione, poi: sì all’universalità della croce, no alla violenza islamista? Ah sì? Tutti i musulmani sono violenti? Quindi cosa facciamo: ci deve essere una sola religione e le altre le proibiamo? Infine: la cultura della vita contro la promozione della morte. Davvero siamo ancora qui a parlare di diritto all’aborto? E ad avere dubbi se qualcuno vuole mettere fine alla propria vita come successo a Federico Carboni, tetraplegico da circa 10 anni per un incidente stradale, riuscito finalmente a mettere fine alla propria sofferenza, qualche settimana fa, con un farmaco e con lo strumento del suicidio assistito. «La vita è fantastica ma la sofferenza è troppa», aveva scritto Federico prima di morire, «continuate a sostenere questa lotta per essere liberi di scegliere».
Ecco, liberi di scegliere. Perché, cara Giorgia Meloni, vuoi toglierci questa libertà? La libertà di amare chi vogliamo. La libertà di una donna di decidere del proprio corpo. La libertà di un uomo di decidere se mettere fine alla propria vita dopo una sofferenza inumana. La libertà di una persona di scegliere la religione che vuole o il vestito che vuole, o l’identità che sogna.
Settimana scorsa, il Papa ha raccomandato di non avere rapporti sessuali prima del matrimonio. E qualche giorno dopo Fedez ha suggerito di fare più sesso possibile prima del matrimonio. Chi ha ragione? Non è importante chi ha ragione. È fondamentale, invece, creare un luogo, una società, una democrazia dove puoi fare o non fare sesso prima del matrimonio, per esempio. Mentre dalle parole pronunciate in Andalusia esce un mondo dove o stai da una parte o stai dall’altra, un mondo di grida violente dove non esiste possibilità di scelta.
Davvero vogliamo vivere in un mondo così? In questo numero di Vanity Fair e nelle iniziative sui nostri social e sul nostro sito delle prossime settimane vi racconteremo storie di amore, di accoglienza, di dialogo, di rispetto. Dalla protagonista di questa cover, una splendida Drusilla Foer, ai video racconti di nonne e nonni che narrano della bellezza, dell’affetto, dell’umanità nelle storie di diversità dei loro nipoti. Generazioni a confronto, età, provenienze, sessi, identità diversi che si parlano senza frontiere, senza paure, senza pregiudizi. Io voglio vivere in un mondo così. Un mondo dove c’è spazio per tutti.

La lettura di oggi: Anne e Paul, una storia d’amore

Dal Corriere della Sera un storia vera che fa riflettere
di STEFANO MONTEFIORI, CORRISPONDENTE DA PARIGI

«È nato un grande amore. Ci amiamo alla follia. Non sono mai stata così innamorata, è dolce, adorabile. Passiamo ore ad abbracciarci», diceva nel marzo scorso Anne Durand de Saint-André, ospite di una casa di riposo di La Rochelle, sulla costa atlantica della Francia. La signora Anne si era rivolta al giornale Sud Ouest perché la permanenza provvisoria nella struttura era finita ma lei rifiutava di abbandonare Paul (nome cambiato), anche lui ospite della casa di riposo.

  • Le sue preghiere non sono state ascoltate. Anne ha dovuto lasciare la stanza che occupava a La Rochelle e non ha sopportato la separazione dall’amato. Nel luglio scorso Anne, 83 anni, trasferita in un altro residence per anziani, si è tolta la vita con un sacchetto di plastica, e i famigliari hanno ritrovato accanto al corpo decine di lettere in cui racconta l’amore per Paul, di quasi dieci anni più giovane.
  • La storia di Anne e Paul solleva la questione dell’amore e della sessualità negli anziani, soprattutto quando non sono completamente autonomi e, come nel caso di Anne e Paul, vengono affidati alla tutela dei figli. Anne Durand de Saint-André era una ex artista e libraia dal carattere molto forte, attaccata alla sua indipendenza, che nell’autunno 2020 ha dovuto lasciare l’abitazione dove viveva, allagata per un guasto alle tubature. Dopo un breve soggiorno in albergo la signora era stata accolta in un Ehpad (l’acronimo francese che sta per casa di riposo) di La Rochelle, dove all’inizio ha faticato ad ambientarsi perché poco incline al rispetto degli orari e delle altre regole della vita in comune.
  • Il suo atteggiamento è cambiato quando ha conosciuto Paul, così raccontato in una delle lettere ritrovate dopo la morte, citate da Libération: «Mi ha detto che mi trova meravigliosa. Quando non siamo nelle braccia l’uno dell’altra, gli faccio scoprire la lettura, gli leggo dei racconti. Mi ha anche insegnato la belote (un gioco di carte, ndr), certe volte giochiamo con altri ospiti. Me la cavo bene, è fiero di me». Solo che il soggiorno di Anne in quella struttura non poteva durare: era stata accolta lì vista la situazione di emergenza e il guasto a casa, ma passato qualche mese i dirigenti dell’Ehpad le hanno chiesto di trovare un’altra sistemazione.
  • Per le camere c’era una lunga lista d’attesa e quella da lei occupata era destinata ad altri. Questione di regole, e anche di «problemi di comportamento e psicologici» evocati dalla direzione. Dopo il primo articolo uscito sulla stampa locale, il regista teatrale Mohamed El Khatib aveva chiesto di incontrare Anne per una pièce che stava preparando sugli anziani. «Erano belli da vedere – racconta il regista -. Era una donna viva, totalmente innamorata, appassionata, divertente, e anche borderline, lontana dal pudore abituale che circonda l’amore in età avanzata».
  • Una volta, davanti al regista e ai suoi collaboratori, «i due amanti si erano baciati con grande passione, poi si erano incamminati, prendendo una strada sbagliata. Lui portava la borsa di lei. Un’immagine che mi aveva commosso», ha raccontato una collaboratrice di El Khatib a Sud Ouest. Oltre alla direzione dell’Ehpad, anche la figlia e tutrice di Paul aveva cominciato a trovare inopportuna quella relazione. Secondo lei, Anne era diventata invadente, possessiva, onnipresente nella vita del padre, tanto che lui stesso aveva chiesto di non vederla più.
  • Secondo i figli di Anne invece Paul non ha mai smesso di amarla, sono gli altri che hanno voluto allontanarlo da lei. E la disperazione di Paul alla notizia della morte di Anne, pochi giorni il trasferimento in un’altra struttura, sembrerebbe dimostrarlo. Oggi tutti esprimono rammarico per il suicidio di Anne, come è ovvio. Più in generale, resta da affrontare la questione della volontà e del consenso dei singoli, quando questi sono affidati a persone che ne hanno la tutela legale, si trovano in età avanzata, magari non sono più totalmente lucidi, ma comunque capaci di provare sentimenti meritevoli di rispetto.

La lettura di oggi : Davanti al dolore di Eriksen

Il dramma del calciatore danese che ha avuto un malore in campo durante una partita trasmessa in tutto il mondo, ha colpito molto un po’ tutti. Io non ho visto e non ho voluto vedere quelle immagini perché ho subito pensato che avrebbero dovuto restare private, non essendo in alcun modo autorizzate dal diretto interessato.  Il giornalista Emanuele Atturo su L’ultimo uomo ha scritto un lungo, interessante articolo sulla vicenda (me lo ha segnalato mio figlio),  cui vi prego di dedicare dieci minuti del vostro tempo.  Lo trovate a questo link.

La lettura di oggi – “Chi nega l’esistenza del virus lo fa per paura”

Da la Repubblica Il commento del professor Mencacci, presidente della Societa’ italiana di neuropsicofarmacologia

Giorno dopo giorno aumentano i contagi e gli ospedali accolgono sempre più casi gravi di coronavirus. Il mondo è sospeso da mesi in attesa di un vaccino che possa salvare dal virus. Ma c’è ancora chi sostiene che Covid-19 sia sovrastimato o addirittura non esista. Una trovata per cambiare gli equilibri mondiali e gestire il potere. Perché? “Il negazionismo è una condizione di sdegno, nell’ambito di una cultura narcisistica, che induce a non sopportare le indicazioni della Scienza. Quello che noi vediamo è che di fronte alla scienza e alla ragione vi è un marcato rifiuto, quando invece proprio ragione e scienza sono la base della nostra civiltà e di quello che noi chiamiamo umanesimo – spiega Claudio Mencacci, psichiatra e presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia (Sinpf) – Diventiamo più umani nel momento in cui rispettiamo la ragione e i principi a cui la civiltà europea ancora oggi si ispira: quelli della rivoluzione cognitiva e della rivoluzione francese”.
La paura
Dal punto di vista psichico, invece, spiega lo psichiatra, “il negazionismo è un meccanismo difensivo dalla paura e dall’angoscia arcaico, primordiale e molto tenace. È una condizione per la quale il negazionista, facendo uno sforzo enorme, si oppone alla realtà dei fatti e ha bisogno di trovare chi la pensa come lui, perché non può tollerare una condizione diversa- sottolinea Mencacci- una condizione che proviene dalla ragione. Nei confronti della paura noi possiamo attivare dei sistemi cognitivi che ci permettano di affrontarla – prosegue l’esperto- La maniera che noi consideriamo più evoluta è di attuare protezioni da questa paura per cercare di sopravvivere ad essa”. Tornando all’aspetto sociologico, “il negazionismo non è una scoperta- ricorda Mencacci –  è un filo rosso che ormai da molti anni attraversa la Sociologia, la Psicologia e la Clinica psichiatrica. Sostanzialmente è un costante attacco all’intellettualismo e nasce dalla convinzione che ‘la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza’”.
Quello a cui si assiste ormai da tempo, precisa il presidente della Sinpf, “è un attacco alla scienza in una società sempre più ignorante. In questo – aggiunge – la Scienza ha delle colpe perché ha dato molte illusioni ma, al contempo è l’unico sistema che abbia permesso all’uomo di progredire e di migliorare la sua qualità e quantità di vita. La ragione ci guida e la scienza funge da faro”.
Guardando all’attualità degli ultimi mesi, Mencacci chiarisce che “in questo momento chi nega l’esistenza del virus lo fa in maniera arcaica e totale. Quindi, di fatto, non solo espone se stesso ma purtroppo anche tutti gli altri” al rischio del contagio. “Il grido della loro libertà – ribadisce- diventa la condanna per gli altri ad ammalarsi, perché queste persone non rispettano le indicazioni che provengono dalla scienza”. Ma cosa succede se, in tempi di Covid-19, un negazionista si ammala del virus di cui nega l’esistenza? “In base alla sintomatologia- spiega l’esperto- avremo dei negazionisti pentiti, costretti dalla realtà a prendere atto”. Tuttavia, ricorda, “il negazionista è alla ricerca costante di un colpevole. Procedendo con un tentativo di riattualizzazione di un mondo fatto di fantasmi e di paure, un mondo medioevale e pre-illuminista, fatto di subordinazione mentale, il negazionista di per sé non solo nega l’evidenza ma è alla costante ricerca di un colpevole”.
Secondo Mencacci, “tanto più Scienza, tecnologia e cultura aumentano, tanto più queste fasce di negazionisti aumentano. Abbiamo una ricca attività di fantasie che- sottolinea- se non si riverberassero negativamente sugli altri farebbero parte del principio della democrazia. Il problema – invece – è che certi comportamenti stanno entrando in contrasto con l’atteggiamento solidale e responsabile nei confronti della collettività che ci viene richiesto. La loro libertà di urlare cozza con la necessità di tutelare la salute di tutti”.
Quello che non comprendiamo
Negare l’evidenza e cercare un colpevole per ciò che non si comprende, ricorda lo psichiatra, “è una riproposizione di schemi infantili che la nostra civiltà ha vissuto per millenni quando non avevamo gli strumenti per comprendere e quindi cercavamo spiegazioni in uno spazio invisibile che si popolava di diavoli, streghe, fantasmi. Poi abbiamo compreso che quel mondo invisibile e’ visibile con altri strumenti e così abbiamo scoperto l’esistenza anche di cose che ci sono pur non percependole con i nostri sensi. È così che, ad esempio, abbiamo scoperto l’esistenza dei virus e abbiamo fatto un salto cognitivo, utilizzando tecnologie che ci permettono di andare al di là dei nostri strumenti naturali. Questa è la Scienza, il resto è fermarsi molto prima”.

La lettura di oggi – La fine di Immuni

L’altra sera il premier Conte non ha mai citato l’App Immuni. Uno strumento che avrebbe potuto contenere i contagi, se fatto funzionare. Ma si è deciso di non farlo. Roba da terzo mondo.
Un articolo di Repubblica scritto da Riccardo Luna, giornalista esperto di informatica.

Ieri sera, nel cortile di Palazzo Chigi, mentre l’Italia sfiorava i 12 mila contagi al giorno e il presidente del Consiglio elencava in diretta tv le (blande) misure per contenere la seconda ondata del virus, è morta la app Immuni. Mai citata. Mai. Come se non esistesse. Come nella prima ondata. Quando però non esisteva davvero.

Se ne iniziò a parlare a fine marzo quando raggiungemmo il record di morti giornalieri da Covid-19: quasi mille. Allora un comitato di esperti insediato dal ministro dell’Innovazione stabilì le regole per varare una app per tracciare i contatti dei contagiati e rallentare la diffusione del virus usando una tecnologia che abbiamo tutti sempre addosso, i nostri smartphone; citando alcune esperienze di apparente successo, il contact tracing sembrava in tutto il mondo la terra promessa da raggiungere per uscire dal lockdown. Ad aprile Google ed Apple annunciarono che avrebbero modificato i rispettivi sistemi operativi per consentire a tutti i paesi di sviluppare una app rapidamente. A inizio giugno quella italiana era pronta, una delle prime del mondo: era persino ben fatta. Era una strada, la strada migliore, per evitare la seconda ondata, ma oggi, lo dicono i dati, lo dicono tutti, è onesto riconoscere che Immuni non ha funzionato. O meglio: la app funziona, ma non funziona il sistema che avrebbe dovuto attivare: il ministero della Salute non ha mai voluto collegare la notifica di contatto con un positivo al diritto a fare un tampone immediatamente, ma così rendendo quella notifica l’inizio di una inaccettabile quarantena burocratica; molte regioni hanno deliberamente deciso di ignorarne l’esistenza, boicottando il collegamento necessario con le aziende sanitarie; troppi medici di base hanno deciso di non inserire i dati della positività del rispettivo paziente sulla app adducendo inesistenti ragioni di tempo e quindi bloccando la possibilità di risalire ai contagi automaticamente. Il tutto si traduce in una espressione inequivocabile: manifesta inutilità.

Queste cose sono venute fuori solo negli ultimi giorni, ma chi poteva impedirle lo sapeva da tempo: erano i dati a dire che non c’era alcun rapporto fra i quasi nove milioni di italiani che hanno scaricato Immuni e il numero ridicolo di notifiche di contagio (circa cinquecento). Lo sapevano al governo e non hanno fatto nulla per non andare in conflitto con le Regioni che in materia sanitaria hanno l’ultima parola, ma intanto veniva chiesto agli italiani di fare un gesto di civismo e scaricare la app. Una beffa di cui oggi paghiamo tutti il conto. Il contact tracing è chiaramente saltato: con il terzo giorno consecutivo sopra i 10 mila contagi giornalieri, risalire ai contatti di tutti è impossibile. O meglio, sarebbe possibile solamente usando la tecnologia che rende quel tracciamento automatico, istantaneo, sicuro e riservato. Sarebbe possibile usando una app. Sarebbe possibile con Immuni. Ma è stato scelto di abbandonarla. Fino alla conferenza stampa di ieri sera in cui è stata ignorata del tutto. Al punto che la sostanza delle misure richieste ai cittadini per contenere il virus – mascherina e distanziamento sociale – è identica a quelle usate per la pandemia del 1918.

Non consola, ma non si può non notare, che negli altri Paesi non è andata molto meglio che da noi. Incredibile non essere in grado di tracciare come si deve il virus in un’epoca in cui tramite gli smartphone ogni nostro spostamento, ogni nostro contatto, ogni nostro intendimento addirittura, viene tracciato.

Ma non è finita. La partita con il virus è ancora lunga, più di quanto siamo disposti ad ammettere. Forse siamo ancora in tempo per rimettere le cose a posto: ma qualcuno al governo ha il coraggio di provare a far funzionare davvero Immuni? Se c’è il momento per dirlo è adesso.

In realtà, per fortuna nel testo del provvedimento si legge che “è fatto l’obbligo all’operatore sanitario di caricare il codice chiave – sull’App Immuni – in presenza di un caso di positività“. Addirittura secondo qualcuno Conte vorrebbe rendere l’App obbligatoria, provvedimento un po’ difficile dal momento che non è possibile installarla su modelli non di ultima generazione. Staremo a vedere.

La lettura di oggi- La lezione che imparo dal Covid

A tutti coloro che sminuiscono la pericolosità e la diffusione del Covid chiedo di leggere questo articolo del Direttore de “La Stampa” Massimo Giannini che, come è noto, ha comunicato di essere stato contagiato dal Coronavirus.

Ho il coronavirus. L’ho scoperto due giorni fa, dopo un sabato passato tra tosse, mal di gola e dolori al torace e una domenica trascorsa nel Pronto Soccorso Covid di un grande ospedale romano, per tutti gli accertamenti. Alla fine, diagnosi inequivocabile: tampone positivo (l’agente patogeno è nel mio organismo, purtroppo), ma Tac negativa (i polmoni sono “puliti”, per fortuna). E dunque prognosi inevitabile: quarantena, isolamento e terapia domiciliare per due settimane. Fino a nuovo tampone, e salvo complicazioni. La notizia, di per sé, conta poco o nulla. Com’è logico e giusto, la mia salute non interessa a nessuno, se non a familiari e amici. Ma se ne parlo e oggi ne scrivo è solo per due motivi, che invece sono molto importanti.

Il primo motivo riguarda il nostro giornale e la nostra comunità. Il rischio di contagio, nella redazione di un quotidiano come in qualunque altro luogo di lavoro, va gestito con rigore. Ce ne siamo fatti carico, ci siamo organizzati, abbiamo garantito e garantiremo la sicurezza di tutti. Ma insieme a questo dovere aziendale nei confronti dei lavoratori, ci guida un obbligo morale nei confronti dei lettori: quello di continuare a informarvi. Dunque, il giornale sarà regolarmente in edicola e il sito Internet sarà regolarmente online. Perché l’informazione non va mai in malattia. E noi siamo qui ad assicurarvela, come al solito.

Il secondo motivo riguarda il nostro Paese e la nostra convivenza civile. Nelle undici ore che ho vissuto al reparto Covid del Policlinico Gemelli, ho visto tante persone ricoverate. Ho sentito tanti pazienti piangere e gridare di dolore. Ho parlato con medici e infermieri, che mi hanno raccontato quanto stiano crescendo i ricoveri urgenti e come si stiano riaprendo le terapie intensive.

Penso che qualche ora di visita in questi luoghi in cui si continua o si ricomincia a soffrire farebbe bene a ognuno di noi. Sarebbe una lezione utile. Di fronte alla drammatica impostura dei negazionisti e alla cinica disinvoltura dei riduzionisti. Di fronte all’insofferenza degli imprenditori e all’indifferenza dei giovani verso le restrizioni imposte dalle autorità politiche. Di fronte a un pericolo mortale: che scenda il Grande Oblio sulla tragedia che abbiamo vissuto tra marzo e aprile, sui diecimila morti soli senza l’ultima carezza e sugli “eroi in corsia” che hanno dato la loro vita per salvare quella degli altri.

Il governo sta per varare un nuovo Dpcm, nella logica da “stato di eccezione” che abbiamo imparato a conoscere da mesi. Un sacrificio doloroso, ai limiti della costituzionalità. Ma necessario, a condizione che finisca il disordine legislativo tra governo e regioni e che le scelte fatte e quelle da fare si discutano nell’unico luogo in cui si esercita la volontà del popolo, cioè il Parlamento. Qualche ulteriore rinuncia adesso, forse, servirà a evitare un rovinoso lockdown dopo. Facciamola, tutti insieme. Come ha scritto ieri Abraham Yehoshua sul nostro giornale, “il dovere di mantenersi coesi e di rispettare la legge, in una società pluralista e polarizzata come la nostra, è sacrosanto e le forze liberali e illuminate dovrebbero essere in prima fila”. Noi ci siamo, e ci saremo sempre.